Sulle luci e le ombre della serie SanPa di Netflix

Sulle luci e le ombre della serie SanPa di Netflix

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San PatrignanoLuci e ombre

La serie SanPa non è solo un documentario, è raro che il genere sollevi un dibattito così vivace. Piuttosto come la narrazione filmica ha la capacità di immergere lo spettatore in un viaggio che non è solo quello della storia narrata, ma anche e soprattutto l’incontro per assonanza con le proprie esperienze, le conflittualità, l’umanità, le questioni personali felicemente risolte o ancora dolorosamente presenti.
Il successo di SanPa è pienamente meritato, va riconosciuta l’ottima produzione ed una regia abile e ben costruita. Certamente non a caso si sofferma sui primi vent’anni della comunità ed il racconto si interrompe con la morte del fondatore, lasciando aperti interrogativi e domande come nelle migliori serie televisive. Dal punto di vista sociale e culturale ha riproposto la necessità di mantenere viva la riflessione sulle difficoltà, l’impegno e le attenzioni necessarie affinché nelle comunità che si occupano di tossicodipendenza l’equipe svolga la sua funzione riabilitativa e terapeutica. In ogni caso, proprio perché la serie è ben fatta riesce a convocarci alla riflessione ed alla condivisione dei pensieri.
Inizialmente, e nonostante l’accenno alle stranezze dell’uomo Muccioli, la comunità brilla in virtù, come suggerisce la luce del titolo di accompagnamento della serie; da lì a poco svela il suo lato più oscuro, la segregazione, la violenza, i suicidi e gli omicidi, le ombre. Poi i due processi che non hanno fermato San Patrignano e l’assoluzione dalle accuse più pesanti che sembravano trovare giustificazione nella parola complessità, dell’argomento trattato, della pratica della riabilitazione, dell’educazione, delle dinamiche della società e in fondo dell’esistenza stessa. Ma come accade di fronte a situazioni molto ambivalenti il giudizio, allora come adesso, si riconduce prevalentemente alle due categorie estreme e opposte, la condanna senza sconti del fondatore e dell’intera comunità o all’opposto l’assoluzione piena per merito. Ricorrere alle categorie bene e male, giusto o sbagliato, non è solo opera di semplificazione o minimizzazione; è l’evidenza della fatica di fare i conti con le due istanze potenti e innate che ci abitano, la spinta vitale che ci avvicina agli altri, costruisce legami sociali e in questi ci colloca, e l’altra più luciferina, aggressiva e violenta che i legami distrugge, allontana, uccide. Nel corso dello sviluppo il nostro mondo interno si arricchisce di tante altre parti e dovremo sempre negoziare, scegliere e assumerci responsabilità, a volte saremo abili nell’affrontare la complessità della vita, delle vicende personali e dei rapporti umani, altre volte vivremo periodi in cui ci è più difficile o ancora saremo cronicamente incapaci di farlo. Credo che questo aspetto si ritrovi in quel momento della serie in cui ad una intervistatrice Muccioli dichiarava che la sua cura era una iniezione giornaliera potentissima di amore e che i ragazzi non li lasciava andare ma li tratteneva anche con la forza. O l’amore salvifico dall’indiscusso potere o il potere della forza e purtroppo del sopruso. Ma dire che l’amore non basta dovrebbe essere una consapevolezza condivisa; l’amore non può farsi bandiera in cui tutto si riconosce e giustifica così come non si giustifica il ricorso alla violenza. L’analisi dei processi mentali ci indica che quanto più un contenuto psichico è avvertito come scomodo ed inaccettabile, come conflitto non risolvibile, quanto più va incontro alla possibilità di farsi estraneo, non deve più appartenerci, deve essere altro da noi per poterlo dominare e controllare. Al di là della psicologia e degli approfondimenti psicodinamici, nella parte della serie che narra le vicende processuali ci viene raccontato di come, di fronte alla dipendenza estrema e ingestibile da eroina, scomoda e difficile da trattare, la soluzione facile ed a portata di mano era la segregazione, l’isolamento in cella, la dipendenza schiava a un altro padrone, a un altro eroe. E ancor più veniva usata la violenza, come una sorta di agenzia Quitters Inc. nell’episodio del film “Gli occhi del gatto” del 1985 che, con il ricorso ad ogni mezzo ed anche alla tortura, garantiva di liberare chiunque dai propri vizi e dipendenze. Vale per tutte una frase detta da uno dei protagonisti di SanPa: sono tutto questo grazie a Vincenzo e San Patrignano e nonostante Vincenzo e San Patrignano.
Nel periodo in cui è nata San Patrignano la riforma psichiatrica aveva da poco chiuso le istituzioni manicomiali riportando il malato mentale, prima ricoverato o segregato, all’interno della società che lo aveva storicamente emarginato. Lo psichiatrico era portatore e depositario delle paure e del disagio della società e, al di là della sua sofferenza e richiesta di cure, era indesiderato e temuto, trasformato in oggetto da allontanare, deriso o privato della propria umanità. Ancora oggi vediamo che non sempre la società è in grado di assumersi il ruolo e farsi comunità che accoglie e cura, ma di quel movimento di crescita sociale e civile è importante proseguire il lavoro e mantenere l’orgoglio e la passione.
In quegli stessi anni 70/80 la tossicodipendenza da eroina ha riempito vie e piazze di corpi e anime in cerca di una sostanza, rappresentazione disperante di un disagio sociale e non solo personale. Eppure in un certo linguaggio comune indicare o appellare qualcuno come drogato, e la parola matto aveva avuto la stessa sorte, era un particolare esempio di economia linguistica che racchiudeva in sé quanto di peggio e di evitante si poteva esprimere.
Difficile pensare che tutte le comunità nate in quel periodo abbiano saputo resistere alla tentazione di assecondare o compiacere il bisogno di parte della società di non vedere, di non occuparsi, di non riflettere sulla natura del problema, diventando, più che luoghi di cura, roccaforti chiuse e di pericoloso isolamento autoreferenziale. San Patrignano nel periodo in cui nacque non era l’unica esperienza, non la migliore e probabilmente nemmeno la peggiore. Aveva la forza intrinseca di cura e di riparazione delle ferite più profonde della vita che hanno le esperienze comunitarie. Muccioli aveva intuito questo elemento ma le sue vicende personali, forse i suoi traumi e le sue ferite, non gli hanno consentito di sfruttare quella esperienza di vita per recuperare e trovare ricovero per gli arroccamenti narcisistici e megalomanici che poi lo hanno travolto e con lui anche le vite, già devastate, di chi non ha retto la violenza, è stato ucciso o si è ucciso. La autoreferenzialità nasconde sempre verità che sono scomode. La nascita di san Patrignano era accompagnata delle voci sui trascorsi insoliti di Muccioli, sulle sue stranezze, leggende e verità sottese mai smentite. Ma la vita di comunità, per farsi realmente terapeutica o riabilitativa, non può essere solo una esperienza hippy o basata su soluzioni magiche o sulla semplificazione narcisistica del potere guarire, con le buone o con le cattive. Ciò che cura deve essere riconoscibile, deve essere trasmesso e promosso, non celato, deve aprirsi al confronto e alla verifica senza timore dello sguardo di altri. Senza questo dialogo ogni metodo, ogni scoperta scientifica perde in autorevolezza, pericolosamente si auto legittima e si riflette narcisisticamente nel proprio specchio.
Ho guardato SanPa con molta curiosità, trovo che sia un ottimo prodotto e in ogni caso ha riportato l’attenzione al tema della tossicodipendenza ed alla necessità che le comunità sappiano garantire standard sempre verificabili di qualità e correttezza degli interventi. L’acceso dibattito che ha stimolato è invece già annunciato e previsto nelle luci e ombre del titolo. E ci si trova a dovere scegliere se sospendere ogni giudizio perché il tema è complesso e spazia dalla cura, alla giurisprudenza, alla politica dei servizi oppure prendere una posizione e vedere solo le luci o al contrario sottolineare le gravità delle ombre.
Al tempo San Patrignano ha dovuto rispondere a precise imputazioni e la giustizia ha emesso i suoi verdetti. Al di là delle sentenze penso che esista un’etica del lavoro con le persone e resta la consapevolezza e la convinzione che la complessità della cura e della riabilitazione, al pari della urgenza e del bisogno di essere efficaci, non debba e non possa mai diventare un alibi per esercitare arbitrariamente il potere del sopruso ed il ricorso alla violenza. SanPa ha facilmente riacceso il dibattito su questa complessità, ci ha riproposto la cronaca inquietante dei fatti, e forse ci ha orientato alla speranza, da presidiare con attenzione e sguardo critico, che le ombre che ci hanno avvolto nella visione delle cinque puntate appartengano solo ad un capitolo triste della storia, di cui è molto bene avere memoria.

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Vincenzo Vannoni administrator

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